Come topi a Shuhada Street

Hebron . Shuhada Street, Via dei Martiri, un tempo arteria principale del centro di Hebron, oggi una strada fantasma. I negozi sono chiusi, tutto è fermo. Eppure in questa parte di Hebron risiedono oltre 20 mila palestinesi. Persone costrette a vivere come topi nelle case a causa dell’occupazione militare e delle imposizioni dei coloni israeliani

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Shuhada Street

Pubblicato 31.10.2015, 23:59

L’Intifada è là, dietro i blocchi di cemento del check point israeliano che affaccia sulla zona H1 di Hebron. L’aria è irrespirabile, il fumo dei lacrimogeni entra nei polmoni e gonfia di lacrime gli occhi. I soldati sparano proiettili di rivestiti di gomma contro i dimostranti. I tiratori scelti hanno in canna munizioni vere, pronti ad usarle per colpire i «leader» dei palestinesi che dalla strada in basso lanciano sassi e urlano slogan tra copertoni in fiamme.

È il copione quotidiano di Hebron e della nuova rivolta palestinese che non trascina in strada le folle della prima Intifada vista alla fine degli anni Ottanta e non esalta la lotta armata della seconda sollevazione nel 2000. Sulla scena ora ci sono ragazzi arrabbiati, senza paura, con l’audacia di chi non ha nulla da perdere perché ha già perduto tutto e sente di non avere un futuro sotto occupazione. Il mese scoso non pochi di questi giovani qui a Hebron si sono scagliati contro soldati e poliziotti israeliani tentando di pugnalarli e sono stati uccisi sul posto, subito. Tra questi, denunciano palestinesi e attivisti internazionali, alcuni non avevano coltelli e sarebbero stati colpiti a sangue freddo.

Strade fantasma
Ieri cinque di questi giovani sono stati sepolti al termine di funerali seguiti da migliaia di abitanti della città, tra riti religiosi e slogan politici. Le autorità israeliane per giorni avevano trattenuto le loro salme, le hanno restituite alle famiglie solo venerdì. I boati dei candelotti lacrimogeni, le urla, i colpi sordi dei protettili, contrastano con il silenzio che regna nella zona H2, sotto il controllo dell’esercito israeliano.

Un silenzio che avvolge in particolare Shuhada Street, Via dei Martiri, un tempo arteria principale del centro di Hebron, oggi una strada fantasma. I negozi sono chiusi, in giro non si vedono palestinesi. Eppure in questa parte di Hebron, che include la storica Tomba dei Patriarchi e una parte del mercato, risiedono oltre 20 mila palestinesi. Persone costrette a vivere come topi nelle case, che usano stradine ed entrate secondarie, che fanno il possibile per non trovarsi a contatto con i coloni israeliani. Mufid Sharawati è uno questi. Abita a pochi metri da Beit Hadassah, una colonia.

Due settimane fa sua figlia adolescente ha assistito dalla finestra all’uccisione di un palestinese. L’uomo, hanno spiegato i comandi militari israeliani, aveva aggredito con un coltello un colono ebreo che ha reagito sparandogli. Sharawati, traducendo in ebraico per una tv israeliana la testimonianza della figlia, ha riferito invece di una discussione accesa tra il colono e il palestinese. «A un certo punto si sono allontanati l’uno dall’altro poi, all’improvviso, l’israeliano ha estratto un’arma e ha sparato». I coloni, spiega Sharawati, «fanno il bello e il cattivo tempo in questa parte della città, i soldati dovrebbero garantire a tutti, anche a noi palestinesi, protezione e invece sono qui solo per difendere i coloni e coprire le loro aggressioni. Ci urlano di stare alla larga, di rimanere in casa e di non scendere in Shuhada Street».

«Il bello e il cattivo tempo»
A poche decine di metri dalla casa di Sharawati lo scorso 22 settembre è stata uccisa la 18enne Hadeel Hashalamoun. Per i soldati israeliani aveva tentato un accoltellamento, una versione non confermata dalle immagini circolate in rete in quei giorni. Amnesty International ha parlato di «esecuzione extragiudiziaria».

Dal 1994, a seguito del massacro di 29 palestinesi nella Tomba dei Patriarchi compiuto dall’israelano Baruch Goldstein, Shuhada Street è stata progressivamente blindata dai militari. L’ordine di chiusura totale è arrivato nel 2000 e resta in vigore nonostante una sentenza della stessa Corte suprema israeliana che ne chiede la riapertura.

Da 15 anni 520 negozi di Shuhada Street sono chiusi per ordine militare, altri 700 sono stati abbandonati dai proprietari per la mancanza di clienti, solo una parte dei palestinesi residenti possono transitarvi e comunque non in auto.

Oggi questa strada fantasma rappresenta il fallimento della spartizione di Hebron decisa nel 1997 dal premier israeliano Netanyahu e dallo scomparso presidente palestinese Arafat. Più di tutto è il simbolo della impossibilità della convivenza tra coloni e palestinesi, tra chi impone la sua presenza con la forza e chi è costretto a subirla.

«Anche in Israele sanno bene che il problema di Hebron sono i coloni, violenti e fanatici, eppure non fanno nulla per fermarli», ci dice Issa Amro, fondatore di «Giovani contro gli Insediamenti», «l’esercito li protegge in ogni modo e non muove un dito per bloccare gli attacchi che compiono contro i palestinesi e le loro case». Amro è categorico. La nuova Intifada, dice, è la conseguenza dell’occupazione militare «e dell’aggressività dei coloni e delle provocazioni della destra (israeliana)» sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme. «Guardate a ciò che accade ogni giorno», esorta l’attivista palestinese, «i coloni attaccano i contadini palestinesi, compiono raid punitivi nei nostri villaggi e tre mesi fa hanno anche bruciato vivo un bimbo di 18 mesi (Ali Dawabsha, sono morti anche i genitori, ndr) e nessuno di loro paga per quelle azioni. È una situazione insostenibile».

La storia attraverso i murales
Lo scorso anno fu una giornalista israeliana, Amira Hass di Haaretz, a denunciare in suo articolo il clima che regna a Hebron: i palestinesi agli occhi dei militari israeliani sono sempre colpevoli e devono provare la loro innocenza, invece i coloni sono sempre innocenti. Andando verso la Tomba dei Patriarchi si cammina nel silenzio rotto solo dal passaggio di mezzi militari e degli autobus usati dagli israeliani per arrivare a Hebron. I murales raccontano la storia della città secondo la versione dei 700 coloni che vi vivono insediati: dai tempi di Abramo, passando per il massacro degli ebrei nel 1929 e la loro fuga, fino alla “redenzione” avvenuta nel 1967 con l’occupazione della Cisgiordania e al «rientro» degli ebrei a Hebron.

Della presenza araba non vi è traccia in questo racconto. I palestinesi per i coloni sono soltanto un elemento decorativo. Mordechai, un colono sulla trentina, camicia bianca, occhiali da nerd, ci dice di «aver lasciato New York con piacere otto anni fa e di aver costruito la sua vita a Chevron (Hebron)». Si mostra sereno mentre dal silenzio della strada fantasma ci porta nella colonia di Beit Romano. «Ecco, questi sono rotoli della Torah antichissimi che custodiamo qui, in questa piccola sinagoga. La nostra vita è semplice: lavoro, preghiera, famiglia», spiega con tono pacato, come se Hebron non fosse sul punto di esplodere.

Come tutti i coloni anche Mordechi sostiene di avere «amici arabi» con i quali non ha alcun problema. Aggira le nostre domande sulla condizione dei palestinesi di Shuhada Street chiusi in casa e soggetti a restrizioni fortissime. «Un giorno ci sarà la pace» ci dice congedandoci con largo sorriso. La pace del più forte ovviamente.

Forrás: http://ilmanifesto.info