Eventi. Omaggio alla rockstar in uno show che replica domani a Rimini. Musica, narrazioni digressioni nel mondo hippie dagil inizi al suo naufragare tra moda, business e droghe

Neil Youn, 1972

Il 12 novem­bre del 2015, a dispetto del nome, com­pirà settant’anni. Cin­quan­ta­cin­que dei quali almeno pas­sati tra «rock imbiz­zar­rito» e bal­late dolenti che hanno segnato diverse gene­ra­zioni. Poche figure come Neil Young sono riu­scite a caval­care le epo­che mostran­dosi per quel che sono, a costo di imboc­care piste morte e scon­tare sulla pelle diverse resur­re­zioni. Per cele­brare Neil Young e il fre­mente mezzo secolo di rock ini­ziato con i Buf­falo Spring­field, pro­se­guito con il super­gruppo cali­for­niano Cro­sby, Stills Nash & Yong, e sta­bi­liz­za­tosi nei decenni con un’imponente pro­du­zione soli­stica l’omaggio arriva dall’Italia.

Si sono messi assieme Pier Angelo Cantù, voce nar­rante e chi­tarra, un pezzo dei Rusties (la miglior band ispi­rata a Neil Young in Europa) con Marco Grompi voce, chi­tarre e Osvaldo Arden­ghi chi­tarre, voce. E due Ritmo Tri­bale e NoGuru: Andrea «Brie­gel» Fili­pazzi, basso, Alex Mar­che­schi, bat­te­ria. Lo spet­ta­colo, Water­face, ha debut­tato ieri al Tea­tro Duse di Agrate Brianza e replica domani al Tea­tro degli Atti di Rimini . Musica, nar­ra­zioni, digres­sioni, andando a sca­vare negli anni più oscuri e fasci­nosi del roc­ker e bal­la­deur cana­dese, non certo nell’apparente sere­nità «coun­try rock» di Har­vest. Il sot­to­ti­tolo dello spet­ta­colo recita: «Neil Young e gli anni della tri­lo­gia oscura». Che poi sareb­bero Time Fades Away, Tonigh’s The Night e On The Beach. Tra il ’72 di Har­vest e la tem­pe­sta elet­trica di Zuma, 1975. Un periodo bru­li­cante di eventi per Neil Young, con­sa­pe­vole di essere in mano allo show busi­ness e chia­mato a crear copie con­formi di Har­vest, spo­sta­tosi a vivere in un ranch lon­tano da tutto e tutti, spo­sa­tosi con un attrice famosa, tro­va­tosi con un figlio han­di­cap­pato in più e tanti amici in meno por­tati via rab­bio­sa­mente dall’eroina che stava ucci­dendo il sogno dei gio­vani freak.

«Water­face — spiega Marco Grompi– è il sopran­nome e alter ego che Neil Young adottò in que­gli anni: fare «la fac­cia dell’acqua» è l’espressione che mette su il bari­sta quando un poten­ziale cliente invece di ordi­nare un drink cor­poso sce­glie un bic­chiere d’acqua che non pagherà». Rac­conta Grompi: «L’idea è nata qual­che anno fa quando rega­lai l’ultima copia di un mio (ormai intro­va­bile) vec­chio libro mono­gra­fico Neil Young: 40 anni di rock imbiz­zar­rito all’amico Pasquale De Fina (Volwo/Atleticodefina). Fu lui ad abboz­zare l’idea: «Sarebbe bello fare uno show imper­niato sol­tanto sui tre album della Ditch Tri­logy». Comin­ciammo da subito a pen­sare a un modo diverso di rac­con­tare con parole, musica e imma­gini quel deli­cato momento della vita e della car­riera di Young e quell’alone sini­stro e miste­rioso che quei dischi con­ti­nuano a ema­nare a distanza di decenni. Da lì ci siamo messi a lavo­rare su una prima ste­sura della sce­neg­gia­tura lar­ga­mente basata sul mio libro e sulle inter­vi­ste di Young ine­renti quel periodo; mi entu­sia­smava l’idea di poter suo­nare quel reper­to­rio con Pasquale, Alex Mar­che­schi e Andrea «Brie­gel» Fili­pazzi, ovvero la sezione rit­mica dei Ritmo Tri­bale, e fin dalla prima prova risultò evi­dente che la band fun­zio­nava. In realtà i Rusties c’entrano poco e, dopo esser stati a lungo la più attiva tri­bute band euro­pea dedi­cata a Young, già da diversi anni hanno intra­preso una strada ori­gi­nale molto più inte­res­sante. Tutto si è sbloc­cato quando è «salito a bordo» Pier Angelo Cantù che si è entu­sia­smato subito al pro­getto tro­vando le siner­gie giu­ste per la pro­du­zione dello show. Con lui abbiamo riscritto e per­fe­zio­nato la sce­neg­gia­tura e defi­nito la regia e i det­ta­gli della produzione».

È curioso che Neil Young nelle dichia­ra­zioni di quel periodo e oltre «smonti» l’idea dell’hippie e delle buone vibra­zioni, salvo poi, negli anni, ripro­porsi spesso come una sorta di «padre fon­da­tore», ad esem­pio nelle com­parse accanto ai Pearl Jam sui pal­chi… «Penso che Neil Young sia sem­pre rima­sto un vero hip­pie per quanto riguarda i valori, l’etica e l’attitudine che ha carat­te­riz­zato quel movi­mento. Però è anche sem­pre stato un attento osser­va­tore e can­tore delle con­trad­di­zioni e dei fal­li­menti che sono occorsi quando il sogno hip­pie è nau­fra­gato mise­ra­mente, nei decenni suc­ces­sivi, tra moda, busi­ness, poli­tica, dro­ghe di regime e altre, assor­tite e spesso vele­nose, stra­va­ganze. Young ha costan­te­mente rifiu­tato il ruolo di «padre fon­da­tore» di qual­si­vo­glia movi­mento o genere musi­cale rimet­ten­dosi costan­te­mente in discus­sione e ride­fi­nendo in sva­riati modi lo stesso con­cetto di «can­tau­tore rock».
Sono con­vinto che le sue fre­quen­ta­zioni con musi­ci­sti appar­te­nenti ad altre gene­ra­zioni, pen­siamo ai Pearl Jam, ma anche ai Devo, a Wil­lie Nel­son siano uni­ca­mente moti­vate da affi­nità musi­cali e stima reci­proca». Grompi si è fatto un’idea pre­cisa su quel periodo nero… «All’indomani dell’enorme suc­cesso di Har­vest e di CSNY, Young si trovò ad affron­tare una serie di eventi emo­ti­va­mente trau­ma­tici che lo por­ta­rono ad esplo­rare corag­gio­sa­mente e «senza fil­tri» il lato oscuro del suc­cesso e di un certo «life­style» cali­for­niano di que­gli anni. Le morti per eroina di amici come Danny Whit­ten (chi­tar­ri­sta dei Crazy Horse), un matri­mo­nio «sba­gliato» la nascita di un figlio con seri pro­blemi psi­co­mo­tori, il senso di stra­nia­mento nei con­fronti dello star system e una serie di impo­nenti tour­née effet­tuate in con­di­zioni psi­co­fi­si­che e ambien­tali dif­fi­cili lo por­ta­rono alla rea­liz­za­zione di almeno tre album — ma andrebbe aggiunto anche il dop­pio Home­grown, tut­tora ine­dito — dai toni quanto mai oscuri e musi­cal­mente distanti dall’immagine del can­tau­tore buco­lico inti­mi­sta e malin­co­nico. Quello che all’epoca fu inter­pre­tato come il deli­be­rato sui­ci­dio com­mer­ciale ha in realtà con­tri­buito a ride­fi­nire il con­cetto di can­tau­tore rock attra­verso tre album che, a distanza di oltre quarant’anni, risul­tano ancora tra i più amati tra gli appas­sio­nati non­ché tra i più influenti presso le suc­ces­sive gene­ra­zioni di musi­ci­sti. On The Beach è l’album pre­fe­rito di pra­ti­ca­mente tutti i «veri fans» di Young pro­prio in virtù della sua diver­sità tema­tica (e di suono) rispetto al resto della sua pro­du­zione. All’epoca della sua pub­bli­ca­zione, fu incom­preso per la crip­ti­cità dei con­te­nuti: lo stesso Young non ha pra­ti­ca­mente mai ripro­po­sto que­ste can­zoni dal vivo. A suo modo Young aveva già can­tato la «fine del sogno» con After The Gol­drush, nel 1970. Time Fades Away è il rac­conto dispe­rato di come l’eroina e la morte si siano insi­nuate tra le pie­ghe di quel sogno. Un po’ come un’istantanea sfo­cata di un momento per­so­nale e gene­ra­zio­nale dif­fi­cile e con­fuso. Young fu deva­stato dalla morte di Danny Whit­ten di cui si sen­tiva, a suo modo, respon­sa­bile, e quella tour­née si tra­mutò in un incubo per tutti coloro che ne furono coinvolti.

Pub­blico incluso. Ancora oggi Time Fades Away è l’unico lp della sua disco­gra­fia che non è mai stato ristam­pato per­ché, come ha dichia­rato lui stesso, «ascol­tare quell’album mi rende nervoso».

http://ilmanifesto.info/waterface-anni-oscuri-e-splendenti-per-neil-young/