— Alba Sasso, 18.4.2015
È stato proclamato dai sindacati per il 5 maggio lo sciopero generale della scuola, unitario come non si vedeva dal lontano 2007, che chiede un cambiamento netto del Disegno di legge del governo.
Forse qualcuno aveva sperato che la velocità del percorso parlamentare sul ddl scuola, imposto contingentando in maniera indecente i tempi della discussione, non desse tempo alla scuola reale di esprimere riserve e contrarietà. E si è sottovalutato quanto la scuola fosse sempre più preoccupata rispetto a un testo molto diverso da quello presentato alla consultazione, soprattutto sul tema decisivo del governo del sistema.
In queste ultime settimane si sono moltiplicate iniziative sul ddl, sempre più affollate e sempre più combattive. Insieme alla consapevolezza cresceva la protesta. Una prima risposta è stata proprio la partecipazione massiccia, l’80% dei docenti, alle elezioni delle Rsu nelle scuole.
La manifestazione di ieri a Roma, affollata molto al di là delle previsioni, è testimonianza concreta di una volontà precisa. La scuola vuole contare e dire la sua. E la proclamazione dello sciopero del 5 maggio ne è testimonianza. I resoconti parlamentari ci raccontano di audizioni dalle quali sono venute critiche e insieme proposte di cambiamento. C’è un documento di 32 associazioni (di docenti, studenti, dirigenti, genitori) concordi su alcuni punti da cambiare. Ci sono associazioni di dirigenti scolastici che criticano un testo «mal scritto, contraddittorio e molto lontano dalle esigenze della scuola». Ci sono richieste di gruppi parlamentari che hanno proposto di stralciare dal disegno di legge la parte relativa al precariato, per permettere le stabilizzazioni dal 1 settembre, senza ricattare il Parlamento con la tagliola dei tempi.
Mi pare allora che la fretta di arrivare a una legge seguendo impensabili scorciatoie parlamentari, rifiutando ogni confronto con le realtà sociali ed associate della scuola, ma anche con gli stessi legislatori sia la dimostrazione concreta che la scuola disegnata dal governo è tutt’altro che buona.
E che il governo rifugge dal confronto proprio perché sa che quelle proposte non otterrebbero mai, nella scuola, una significativa base di consenso.
Per questa scuola non è prevista nessuna valorizzazione, anzi si assisterà a un nuovo taglio delle risorse. Il Def, approvato dal governo solo pochi giorni fa, prevede per l’istruzione risorse pari al 3,7% del Pil, rispetto al 4,5 del 2010 e al 5,4 del 1990. In un confronto con gli altri paesi europei saremmo, come al solito, gli ultimi della lista. Insomma, dopo i drastici tagli di Tremonti e Gelmini che hanno indebolito la qualità della scuola, in particolare della primaria, un tempo ai primi posti nelle classifiche internazionali, con una pesante riduzione di tempo pieno e di insegnanti, non si segna nessuna inversione di rotta.
Altra questione cruciale è l’impianto autoritario su cui si vorrebbe far leva per riformare la scuola. La scelta degli insegnanti da parte dei dirigenti ferisce in modo grave l’unità del sistema e rischia di promuovere una pericolosa gerarchia tra scuole. Inoltre si creerebbe una subordinazione degli insegnanti nei confronti dei dirigenti — ai quali viene dato il potere di assegnare premi e gratifiche in denaro -, che mette pericolosamente in discussione la libertà di insegnamento. Segnalo questi due problemi per tutti che, insieme alla questione della stabilizzazione dei precari, hanno fatto scattare un segnale di allarme, imponendo di allargare una mobilitazione sociale da tempo in atto. È l’unica strada per fermare il cammino di un treno ormai in corsa.